La storia di Magdangal

Wally Magdangal, un testimone di Cristo.  

Il mio nome completo è Oswaldo Magdangal, ma fra i cristiani in Arabia Saudita sono più conosciuto come "pastore Wally".
Insieme a mia moglie ho trascorso 10 anni in Arabia Saudita.
Il 14 ottobre del 1992, la Mutawa riuscì a rintracciarmi.
Forse non tutti sanno cos'è la Mutawa: è la polizia di sicurezza religiosa dei paesi islamici; i suoi ufficiali sono paragonabili ai farisei del tempo di Gesù: dovrebbero essere dottori della legge, esperti che applicano la legge, ma Gesù li chiamava "ipocriti" e "sepolcri imbiancati".
Ciò che valeva per i farisei di allora vale anche per quelli della Mutawa di oggi.

Nell'ottobre 1992, dunque, la Mutawa venne a sapere dove mi trovavo, tramite un credente filippino (così almeno pensavo allora, ma ora dubito molto della sua esperienza cristiana).
In ogni modo era stato per anni insieme a noi e mi era molto vicino; lo consideravo più che un fratello. Qualche giorno prima del mio arresto, lo vidi uscire da una moschea, lo avvicinai e gli chiesi: "Non avrei mai immaginato che fossi musulmano".
Mi disse: "Lo sono già da un po di tempo".
Qualche giorno dopo quell'incontro, fui arrestato insieme ad un altro fratello, con l'accusa di bestemmia e di sovversione, i due capi d'imputazione con i quali potevano giustificare la nostra esecuzione per impiccagione.

Per gli uomini in Arabia Saudita esistono due modi per essere messi a morte: decapitazione o impiccagione.
La decapitazione è riservata ai criminali, stupratori, omicidi, trafficanti di droga ecc.; la forca invece viene riservata ai bestemmiatori e ai sovversivi.
Noi dunque dovevamo essere impiccati il 25 dicembre del 1992.
In quegli anni usavamo la massima prudenza: prima dei culti i fratelli entravano in momenti prestabiliti, durante il corso della riunione, ognuno aveva il suo preciso momento di arrivo.

A volte eravamo molto rigidi: chi non arrivava al momento prestabilito non poteva più entrare e doveva ritornare la settimana successiva.
Qualche volta facevamo entrare anche i ritardatari, ma mai se prima non avessero telefonato, scritto una lettera o avvertito per tempo che non sarebbero venuti in orario.
Chi suonava doveva comporre un codice al citofono.
Quando la Mutawa entrò conosceva il nostro codice a causa della spia.
Pochi giorni prima dell'irruzione il Signore ci aveva già dato una chiara indicazione che saremmo stati perseguitati.

Venti agenti perquisirono la mia casa, misero tutto sottosopra, infine mi portarono via.
Gli altri fratelli che erano con me furono rilasciati quella sera stessa.
Alle tre di mattina fui rinchiuso, per la prima volta, in una cella di 3 metri per 5, dove avevano stipato 25 prigionieri che dormivano tutti per terra come sardine in scatola.
La cella era così piena che non potevano sdraiarsi sulla schiena, ma solo sui fianchi.
Per me non c’era spazio; perciò mi misi a sedere vicino al gabinetto.
La mattina del mio arresto mia moglie si era recata all'ambasciata filippina.
L'ambasciatore mi conosceva già; chiamò il suo assistente dando ordine di aiutare mia moglie a trovarmi. Più tardi, la sera dello stesso giorno, vennero a trovarmi.
L'indomani, venerdì, fui incatenato ai piedi e ammanettato.
Non c'era ancora nessuna accusa, nessun processo e già ero ammanettato.
Mi portarono al piano di sopra, in una stanza dove tre uomini mi torturarono fisicamente per tre ore e mezza.

Non c'era stato processo né condanna, ma le torture precedettero l'interrogatorio ufficiale.
Prima mi schiaffeggiarono, mi diedero dei pugni e dei calci, ben peggiori furono le bastonate.
Mi batterono sulla schiena, sulle palme delle mani e sotto la pianta dei piedi.
I colpi sulla schiena sono dolorosi, anche quelle sulle mani, ma le percosse sotto le piante dei piedi lo sono molto di più, perché esse portano tutto il peso del corpo.
Eppure potei sostenere quelle torture: tutta la gloria va a Dio, non è merito mio!
Spiritualmente ero ben preparato e Dio era con me e mi  permise di sopportare tutto, sostenendomi dall'inizio alla fine: fu un miracolo!
Prima di condurmi nella mia cella, quella sera, mi chiesero se avessi ancora qualcosa da dire.
Mi preoccupavo della loro salvezza eterna e perciò risposi che avevo chiesto al Signore di perdonare loro tutto.
In seguito comunicai loro cose più importanti; sapevo che Dio stava toccando il loro cuore.
Potete interrogare qualsiasi filippino battuto in Arabia Saudita: dopo 5 minuti di torture li facevano stendere sulla pancia e curavano le loro ferite.
Anche dopo la guarigione si vedevano ancora le cicatrici per diverse settimane.
Nel mio caso però non c’erano più cicatrici o tagli dopo sette ore e mezzo: fu un grande miracolo! Quando riconobbi di essere completamente guarito, mi misi a piangere: dissi a Dio che era meraviglioso!

Fui portato in tribunale per ben due volte, ma non c'era nessun avvocato, né alcun rappresentante del governo filippino.
Il 9 novembre fui nuovamente interrogato dall'ufficiale della Mutawa.
Ad un certo punto l'ufficiale mi disse: "Raccontami cosa insegna il cristianesimo".
Ringraziai il Signore per quest'opportunità e incominciai a parlare di Gesù e del piano di Dio.
Dopo un po, notai che l'espressione del suo volto era cambiata: stava sorridendo e mi accorsi che lo Spirito Santo stava operando in lui; tuttavia egli non accettò Gesù Cristo come Signore.
Quando ebbi finito mi disse: "Ora capisco perché sei un cristiano".
Prima che mi lasciasse, quel giorno ebbi la convinzione che il Signore l'aveva davvero toccato, perché mi disse cose che non mi poteva ufficialmente comunicare; mi disse: "Wally, voglio che tu sappia che la tua situazione è estremamente seria. La tua sentenza sarà la condanna a morte per impiccagione".
In Arabia Saudita non è permesso dire ai prigionieri a quale pena saranno condannati, perché così non hanno più possibilità di ricorrere in appello, e la gente non saprà nulla in anticipo; lo si saprà non prima del giorno seguente, quando si leggerà la notizia del supplizio sui giornali.

Il 15 dicembre, un eminente generale andò a trovare mia moglie.
Lo fece in gran segreto, perché aiutarci costituiva un grave rischio.
Mia moglie ed io siamo stati 10 anni in Arabia Saudita e ambedue lavoravamo per il governo.
Dio mi aveva permesso di avere rapporti con molte persone importanti.
Il giorno dopo il mio arresto, mia moglie cominciò a telefonare loro uno per uno.
Tutti quanti offrivano il loro aiuto, ma non potevano realizzare le loro belle promesse.
Il generale le spiegò che era rimasta solo una carta da giocare: dovevamo informare il governo filippino; e bisognava farlo in fretta.
Mia moglie si inginocchiò e ne parlò con Dio, che le mostrò le due persone che doveva contattare nelle Filippine.

Il 21 dicembre i giornali di Manila pubblicarono la nostra storia.
Il 23 dicembre alle 23.15 un alto funzionario della polizia ci comunicò che io e il fratello Renè eravamo finalmente liberi.
Alle 16,30 del giorno seguente ci fecero salire su un’auto della polizia per condurci all'aeroporto. Entrammo in aeroporto da un accesso secondario; a un tratto vedemmo un rappresentante della famiglia reale; ci venne vicino e ci salutò chiedendoci come stavamo.
Gli raccontammo tutto, anche dei maltrattamenti subiti.
Si dimostrò meravigliato e in seguito guadagnammo la sua amicizia.
Nonostante le proteste dei nostri custodi fummo portati al piano superiore dove tutta la comunità era presente per darci l'addio.
Presentai i miei fratelli al dignitario, che in seguito mi chiese se avevo apprezzato la compagnia di mia moglie e dei miei amici nella sala della dogana.
Per la prima volta in Arabia Saudita, i cristiani avevano potuto tenere un culto di 30 minuti in un luogo pubblico!
Il 25 dicembre eravamo a Manila, sani e salvi.

Giuseppe

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